sabato 9 aprile 2011

Firmato Keith Richards

Tra le pagine delle biografie rock si respira spesso un'aria dantesca, da discesa agli inferi. La mistica del r'n'r impone di sporcarsi le mani con particolari scabrosi e confessioni da far tremare i polsi. Nel caso di Keith Richards – chitarrista e cuore pulsante della più grande rock band del pianeta, i Rolling Stones, l'eroe maledetto per eccellenza, il fuorilegge, l'emissario di Satana e il tossico numero uno - era dunque lecito aspettarsi un clima torbido e ferale, in caduta libera dal girone dei lussuriosi a quello degli epicurei e ancor più giù. E invece in “Life” - l'attesa autobiografia scritta con il giornalista James Fox, ma in parte anche in "Keith Richards: Before they make me run" di Kris Needs, testo del 2004 da poco tradotto anche in Italia da Dalai – il tono è lontano dallo stereotipo che vuole Richards, oggi sessantasettenne, come l'incarnazione del Principe delle Tenebre e diabolico freak of nature (leggenda a cui contribuì la famosa storiella dei viaggi in Svizzera per cambiarsi il sangue, qui prontamente smentita, e la dichiarazione-shock di essersi sniffato le ceneri del padre, questa confermata). In “Life” Keef si racconta con ironia, schiettezza e il sarcastico disincanto di chi le ha davvero viste tutte ed è - semplicemente - sopravvissuto. Intendiamoci, le follie e gli eccessi non mancano, ma si parla soprattutto di musica, tanta musica: del blues degli esordi, imparato con abnegazione consumando i dischi di Chuck Berry, Muddy Waters e Howlin' Wolf, dell'R&B al fulmicotone messo a punto dagli Stones grazie a uno stile chitarristico unico (basato anche sulla famosa accordatura aperta a cinque corde, poi divenuto il marchio di fabbrica di Mr human riff.) Si rivelano intuizioni geniali e si assiste - con un misto di stupore e rapimento - alla nascita dei riff immortali di “Satisfaction” e “Jumpin' Jack Flash”. Certo, si ricordano anche la vita da junkie impenitente e impunito - tra scandali, processi e fughe dalla polizia - e il sodalizio artistico, perennemente in bilico tra odio e amore, con il "gemello" Mick Jagger (l'altra metà della celebre coppia di songwriter, i Glimmer Twins). C'è il rapporto burrascoso con Anita Pallenberg, le immancabili groupie, le confidenze feroci di Marianne Faithfull e il nuovo, salvifico amore per Patti Hansen. Si evocano tragedie inevitabili come la morte di Brian Jones e altre evitabili come Altamont. Tutto quello che avreste voluto sapere e non avete mai osato chiedere, insomma. Sorge solo il dubbio - non tanto per il libro di Needs, che è una biografia non autorizzata (dunque uno sguardo necessariamente esterno) quanto per il memoir ufficiale curato da Fox, così dettagliato e ridondante di particolari - di trovarsi di fronte più al frutto del certosino lavoro di ricostruzione del giornalista che non al naturale prodotto dello sforzo mnemonico di Mr Richards, i cui neuroni sono rimasti a bagno in ogni genere di sostanza psicotropa per decenni. A noi, però, piace ancora dar credito a quella vecchia leggenda in cui il chitarrista incontrò il diavolo a un crocevia in una notte senza luna, proprio come fece il bluesman Robert Johnson, e gli vendette l'anima in cambio dell'immortalità e della musica perfetta, il rock'n'roll.
Keith Richards (con James Fox), Life, Feltrinelli, pagg 528 , € 24.00
Kris Needs, Keith Richards: Before they make me run, Dalai Editore, pagg 576, € 24.00

martedì 5 aprile 2011

Nick Kent: Sex, more drugs and rock'n'roll

"Se uno ci pensa, la memoria umana è uno strumento troppo ingannevole per farvi affidamento. Man mano che gli anni incedono, la realtà di ciò che è stato si confonde con le fantasie su ciò che avremmo voluto che fosse, e non si può mai essere davvero sicuri che sia proprio la nuda verità ad essere evocata". Inizia così, quasi mettendo le mani avanti sulla veridicità del contenuto, "Apathy for the devil", l'autobiografia irregolare di Nick Kent, firma storica del New Musical Express e testimone diretto - quando non addirittura protagonista - della scena musicale britannica degli anni Settanta. La golden age del rock, quando gli "Dei dorati", le rockstar nel pieno della loro sfavillante giovinezza, camminavano fra noi. E facevano a pezzi backstage e camere d'albergo, giravano con codazzi di groupie dagli occhi di cerbiatto, scrivevano canzoni memorabili e assumevano quantità industriali di sostanze psicotrope d'ogni gamma e colore. A far a gara con loro in nefandezze ed eccessi - i sensi perennemente acuiti o ottenebrati dalla chimica - c'è un giornalista allampanato e appena ventenne, dalla naturale inclinazione ad emulare i comportamenti autodistruttivi dei protagonisti dei suoi pezzi. Arrogante ed edonista, Kent è campione di quel giornalismo che non si limita a registrare eventi con distacco ma vive, respira, tocca con mano - e spesso distrugge - la materia stessa di cui sono fatti i suoi articoli, le sue recensioni. Il rock'n'roll. Lo ha imparato direttamente da Lester Bangs, guru del nuovo gonzo journalism alla Hunter S. Thompson e icona irriverente della contro-cultura a stelle e strisce, penna feroce di Rolling Stone, Creem e Village Voice e tossico senza speranza, le cui pericolose abitudini finiranno per condurlo precocemente sei piedi sotto terra. Come Bangs (la sua prosa vulcanica è raccolta nell'antologia postuma "Psychotic Reactions and Carburetor Dung" curata da Greil Marcus nel 1984 per Knopf e tradotta anche in Italia nel 2005 da Minimum Fax col titolo “Guida ragionevole al frastuono più atroce”), Nick Kent esplora il rock e le sue trasgressioni dal di dentro, where the action is, spalla a spalla con le rockstar junkie del periodo - la dipendenza e i vari tentativi di riabilitazione ne saranno lo scomodo lascito, ora superato dopo un'odissea terapeutica e personale - e ne restituisce tutta la carica esplosiva attraverso una scrittura graffiante, ironica e non convenzionale. La sua prima intervista nel giro che conta, quello dell'NME, è nel 1972 agli MC5 - eroi hard rock della scena di Detroit insieme agli Stooges - ed è sempre in una sera dello stesso anno che si ritrova ad essere uno dei tre spettatori e mezzo (gli altri sono Viv Prince, l'ex-batterista dei Pretty Things e un Hell's Angel col suo cane) sempre ad un concerto del quintetto della Motorcity. Il suo destino è segnato. Proprio come quello di Bangs che, manco a dirlo, esordì con una stroncatura di "Kick Out the Jams". Nelle sue scorribande, Kent inizia a dividersi strisce di polvere bianca con i Led Zeppelin, diventa amico prima di Iggy Pop e dei Rolling Stones e poi di Chrissie Hynde (che gli spezza il cuore) e dei Sex Pistols. Finendo nell'abisso dell'apatia che dà il titolo al libro (preso a prestito da una feroce battuta di Dylan sulla celebre "Sympathy for the Devil" degli Stones). Certo, oggi la sua scrittura si è fatta più lucida e disincantata, quasi che la nebbia chimica, il glamour e l'urgenza anfetaminica che ne dominavano lo stile negli anni 70 (leggere, per credere, la sua prima raccolta di scritti "The Dark Stuff", Penguin, 1994) si fossero sedimentati, lasciando trasparire in controluce la trama decadente, l'anima nera dei Seventies e il loro carico di cinismo, droghe pesanti e individualismo perfettamente mascherati nel celebre motto Sex, drugs and rock'n'roll. Ma è una lettura ancora sorprendente, quella del libro di Kent, da conservare sul comodino come un breviario di saggezza r'n'r: i lettori - e anche qualche addetto ai lavori - potrebbero forse scoprire la distanza siderale che separa la letteratura rock dalla sussiegosa pseudo-critica fatta di cartelle stampa rimasticate e pagine di wikipedia mandate malamente a memoria.

Nick Kent, "Apathy for the devil - Memorie dagli anni Settanta", Arcana, pagg 319, €19,50